Com’era la storia che dal Covid saremmo usciti migliori? Nella lotta al razzismo da stadio purtroppo la domanda non ha molto senso. Le scene dell’Allianz Stadium di Torino sembrano il remake di quanto accadde a Cagliari il primo settembre 2019, anche quella volta per un rigore, anche quella volta per i cori razzisti contro Romelu Lukaku. Ma il discorso è più generale. Il ritorno generalizzato sugli spalti dopo gli anni delle chiusure a singhiozzo per la pandemia, ha portato con sé una serie di episodi che purtroppo non sono superati. In Italia gli episodi di intimidazione sotto varie forme nei confronti di calciatori sono stati 121 nella stagione 2021-2022 di cui 52 di matrice razzista, il 43% (nel 2015-2016 erano solo il 21). Se è vero che i numeri non sono sovrapponibili, visto che parliamo di due stagioni fortemente influenzati dalle chiusure del Covid, l’ultima annata ha registrato un numero di casi superiore alla somma delle due stagioni precedenti, 2019-2020 e 2020-2021, in cui si erano registrati 114 episodi di cui 47 di impronta razzista.
Diminuite le offese social
Sono diminuite le offese social, sono tornati invece i cori. Peraltro, proprio nel report dell’Aic si fa riferimento a una zona grigia, una “parte oscura” rappresentata dal “non denunciato”, che si concentra presumibilmente nelle serie minori. In ogni caso, la maggior parte degli episodi, l’85% nell’ultima stagione, si concentra nei campionati professionistici. Sono 39 i calciatori di colore il bersaglio, rispetto agli 11 che vengono dalla zona dei Balcani. I dati non cambiano se si prende in considerazione un’altra “fotografia”, quella scattata dall’Unar (Ufficio Nazionale Anti Discriminazioni) e dall’Unione Italiana Sport per Tutti. Come scrive La Gazzetta dello Sport, dal primo giugno 2021 al 30 giugno 2022 secondo il neonato Osservatorio Nazionale del Razzismo nello sport, sono stati censiti 211 episodi di cui 165 in cui l’offesa è stata pronunciata per «origini nazionali o etniche» e per i «tratti somatici delle vittime». In tutto questo, il calcio – e quello professionistico in particolare – occupa la fetta più grande con il 78,7% dei casi.
Il problema non è solo in Italia
Il problema principale sembra quello di una sorta di “goliardizzazione” del razzismo, l’idea che allo stadio sia lecito ciò che fuori avrebbe un valore più grave. Peraltro il problema non è solo italiano, questo è chiaro. Lo testimonia anche il campionato dei campionati del calcio europeo, la Premier League. Non c’è bisogno di ricorrere all’ondata di insulti razzisti via social contro tre dei calciatori – Rashford, Sancho e Saka – che sbagliarono i rigori nella famosa finale dell’Europeo contro l’Italia. Secondo i dati di Kick It Out, nell’ultima stagione gli episodi razzisti nel calcio di vertice sono stati 183. E anche in Spagna, il caso dei cori razzisti contro Vinicius del Real Madrid. Insomma, non si tratta di un’emergenza solo italiana anche se all’estero gli strumenti repressivi più incisivi. Nel recente convegno di «Sportcity» a Salsomaggiore, è stato Luigi De Siervo, ad della Lega di Serie A, a sollevare la necessità di andare avanti sulla possibilità del «riconoscimento facciale», mentre Michele Uva, direttore Football & Social Responsibility dell’Uefa ha ricordato «una norma, già esistente in Germania, che avevo introdotto nel 2015 quando ero in Figc, che dava alle società la possibilità di non far accedere allo stadio le persone non gradite». Insomma, fra emergenze e regole, potrebbe essere arrivato il momento di una svolta?