Su tutti i quotidiani si parla della bufera che ha coinvolto l’AIA e il suo presidente Alfredo Trentalange. L’arresto del procuratore capo D’Onofrio per traffico internazionale di droga ha rivelato anche un quadro peggiore di quello iniziale e secondo Repubblica la conseguenza inevitabile sarà il commissariamento e il conseguente addio al numero uno, eletto soltanto un anno fa. Nella giornata di ieri abbiamo parlato di un possibile deferimento per Trentalange, ma la situazione potrebbe aggravarsi in fretta: la FIGC gli ha concesso una settimana di tempo per decidere cosa fare, poi le indagini si chiuderanno. Ma intanto il danno alla credibilità della già vessata classe arbitrale è mostruoso.
Nel mirino
Negli elementi forniti dal Procuratore federale Giuseppe Chinè, emerge come Trentalange non abbia fatto nulla, nemmeno a livello minimale, per preservare l’AIA dalla bufera. E in più casi avrebbe anzi addirittura avuto responsabilità anche nella condotta dello stesso D’Onofrio, definito “negligente e inadeguato“. Gravina ha forse atteso troppo per risolvere la questione politicamente: il 19 dicembre sarà in programma il consiglio federale, al fine di concedere all’attuale capo degli arbitri una exit strategy. Dimettersi (anche se non ne vuole sapere) gli permetterebbe di uscire senza cacciata, ma inevitabilmente crollerebbe l’intero consiglio.
Ricostruzioni
Il quotidiano riporta poi anche alcuni episodi intercorsi fra Trentalange e D’Onofrio, secondo cui il primo avrebbe difeso il secondo chiedendo alla commissione disciplinare di non assumere iniziative contro di lui. Un fatto gravissimo, una vera e propria ingerenza nella giustizia sportiva, dettata probabilmente da un rapporto personale molto consolidato. Lo stesso Trentalange aveva infatti suggerito D’Onofrio nel 2009 per la disciplinare, proponendo poi come Procuratore arbitrale, seppur ai domiciliari. Ma anche qui tante cose non tornano: nessuno si è mai fatto una domanda ovvia? Come mai non partecipava alle riunioni? Lui non c’era nonostante servisse una presenza regolare, ma i procedimenti andavano avanti con firma Rosario D’Onofrio anche se lui era solito firmarsi prima con il cognome. Non solo il rischio di documenti falsificati, ma fra le accuse ci sono anche rimborsi spese fittizi. E il responsabile, in casi come questo, è sempre il presidente.